Non una frivola chiacchierata da bar: retroscena degli effetti di una tazzina di espresso

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Bevande nervine: caffeina & co.

Il caffè rientra a pieno titolo nel novero delle bevande nervine, ossia bevande contenenti sostanze che agiscono a livello del sistema nervoso centrale. Gli effetti stimolanti sono in particolare da ascrivere ad alcaloidi naturali, molecole azotate di origine vegetale, come caffeina, teofillina e teobromina (quest’ultima presente ad esempio nel cacao). Tutti questi alcaloidi sono imparentati perché derivano da una xantina, composto chimico del gruppo delle basi puriniche del DNA, adenina e guanina.

Caffè “integrale” vs caffè “raffinato”

L’aroma del caffè si sprigiona con il processo di tostatura, che distingue il caffè verde da quello tostato. Questa metamorfosi chimica dal chicco verde non altera solo le caratteristiche organolettiche ma ovviamente anche la composizione percentuale della caffeina e degli altri innumerevoli composti propri del chicco del caffè: minerali, lipidi, carboidrati e molecole bioattive come i polifenoli.

Il tipo di chicco (Arabica o Robusta), il grado di tostatura e il metodo di preparazione, comprese le impostazioni di macinatura del caffè e il tipo di infusione, avranno tutti un’influenza sulla composizione biochimica della tazzina finale.

Senza scendere nei dettagli numerici, nel caffè tostato, ossia trattato con le alte temperature per rimuovere l’acqua e sviluppare il classico aroma, c’è più caffeina, minerali tra cui il potassio, acidi alifatici, melanoidine e circa la metà di acido clorogenico rispetto al caffè verde. Il contenuto complessivo di polifenoli, molecole ad azione antinfiammatoria e antiossidante, è molto elevato, e il principale detentore degli effetti protettivi, l’acido clorogenico, seppur ridotto fino al 90% a seguito dei processi di lavorazione, macinazione, ed esposizione ad alte temperature, è presente fino Ale notevoli concentrazioni di 250 mg in 100 ml.

Non solo nel caffè: la caffeina

Nell’immenso agglomerato delle migliaia di sostanze disciolte in una tazza di caffè, è inevitabile un approfondimento sul principio psicoattivo che vanta il primato inviolabile di essere il più consumato e desiderato al mondo: la caffeina, o 1,3,7-trimetilxantina per gli addetti ai lavori.

Si reperisce naturalmente nei chicchi di caffè, nelle foglie di tè, nelle fave di cacao e nelle noci di cola e viene anche addizionato a cibi, bevande e integratori per gli sportivi. Importanti fonti alimentari annoverano caffè, tè, yerba mate, soda contenente caffeina (tipo cola) e bevande energetiche.

Farmacocinetica 

Poniamo il caso che adesso ci venga voglia di un caffè per darci una carica di energia: una volta che la ingeriamo, la caffeina passa nel nostro tratto gastroenterico. 

Di solito, a cavallo tra i 15 e i 45 minuti e meno tempo se a stomaco vuoto, viene assorbita in modo pressoché totale (in biochimica si dice che ha biodisponibilità prossima al 100%) e transita nel circolo sanguigno. Massimo 45 minuti è quanto richiesto perché la caffeina scateni la secrezione di adrenalina delle ghiandole surrenali aumentando lo stato di vigilanza.

Tra 30 minuti e 2 ore, in base a fattori individuali, raggiunge il picco di concentrazione ematica e questo arco temporale solitamente coincide con il momento di insorgenza dei primi sintomi: svaniscono sonnolenza e stanchezza, aumenta la concentrazione, aumenta la secrezione acida da parte dello stomaco, accelera la motilità intestinale, si dilatano i bronchi, si attiva la produzione di bile da parte del fegato, aumenta la gittata cardiaca.

Il consumo di 2 tazzine di caffè espresso, corrispondenti a circa 50 mg di caffeina per porzione, conduce a concentrazioni nel sangue comprese tra 1.5 e 1.8 g/ml.

Come tutte le sostanze assorbite e circolanti nel sangue, non si accontenta di rimanere lì e tende indiscriminatamente a raggiungere tutti i fluidi corporei. Potremmo prelevarla nella saliva, nel latte materno e persino nella placenta.

Essendo una molecola che ha affinità per le componenti grasse e repulsione per l’acqua (in gergo tecnico, viene detta “lipofila”), può senza indugio scavalcare la membrana fosfolipidica di tutte le cellule e altresì la barriera ematoencefalica, posto di blocco altamente selettivo tra il plasma sanguigno e il liquido extracellulare dell’encefalo, dove può esercitare i suoi effetti psicotropi: modifiche allo stato di veglia, euforia, attenzione e implementazione della prestazione mentale e sportiva.

Una volta che la caffeina raggiunge l’autostrada del sangue, caso per caso e in maniera dipendente da diverse variabili, normalmente saremmo in grado di misurare la sua presenza per una durata limitata.

Negli studi di farmacocinetica è importante calcolare l’emivita di un farmaco, che è il tempo necessario affinché il principio attivo si dimezzi in concentrazione: se l’emivita è breve, si riduce velocemente la concentrazione e si può pensare di aumentare il dosaggio o la frequenza di somministrazione o preferire una via di somministrazione più efficace, per mantenere più a lungo gli effetti farmacologici; viceversa, se l’emivita è lunga, la concentrazione nel sangue si riduce lentamente e somministrazioni ravvicinate potrebbero causare effetti amplificati da sovradosaggio. 

La caffeina ha un’emivita plasmatica che può andare dalle 2.4 alle 4.5 ore, per cui vien da sé che precauzionalmente non dovremmo mai esagerare e attendere almeno 2-3 ore tra un caffè e il successivo. E non berne troppi, ma di tutti questi aspetti ne parleremo successivamente.

La tappa finale del viaggio di tutte le molecole di origine esterna all’organismo sono gli organi emuntori: fegato, rene e polmoni. Tra questi è il fegato a fare la parte del leone, con il suo innato talento nella detossificazione di varie scorie metaboliche, farmaci, droghe, alcol e tante altre sostanze, inclusa la caffeina. Il metabolismo epatico mastica e riassembla la caffeina in in paraxantina (84%), teobromina (12%) e teofillina (4%), che in parte preservano le attività biologiche della caffeina. 

Il fegato cede la palla al rene, via di escrezione della caffeina e dei suoi sottoprodotti: circa il 10% viene eliminata come caffeina immodificata.

Il tempo per metabolizzarla e per eliminarla: correzioni del dosaggio per minimizzare i rischi

L’emivita della caffeina è strettamente connessa alla funzionalità degli enzimi del fegato deputati a metabolizzarla e infatti, il motivo per cui una donna che aspetta un bambino dovrebbe limitarsi a caffè decaffeinato o d’orzo è perchè nel feto si prolunga ben oltre le 4.5 ore, essendo il suo sistema enzimatico ancora immaturo. Il caffè e il suo psicoattivo permangono più a lungo nel sangue anche nella donna in gravidanza, nel neonato, nelle donne che assumono contraccettivi e nei soggetti in età pediatrica. Viceversa, in un fumatore, sembra che la nicotina acceleri il metabolismo della caffeina aumentando il desiderio di bere caffè, il quale, a sua volta, fa spesso venire voglia di accendersi una sigaretta in un circolo vizioso difficile da spezzare.

Queste categorie di persone devono prestare maggiore cautela su frequenza, tempi e dosi di assunzione e si deve aggiustare il tiro sui livelli di consumo giornaliero accettabili ed esenti da rischi per la salute.

Parlare di metabolismo in questa sede è utile per introdurre il concetto di biodisponibilità, ovvero la frazione di un nutriente o farmaco che è in grado di raggiungere la circolazione sistemica, acquisendo così la capacità di agire dove è intrinsecamente programmata a farlo (il target). 

Slow metabolizer vs fast metabolizer 

Dietro a differenze farmacocinetiche, di biodisponibilità o profili di assorbimento della caffeina, così come il tipo di metaboliti del caffè a cui un dato individuo è esposto, i fattori sono diversi:

  • il genotipo, l’insieme dei geni del nostro DNA, e nel dettaglio polimorfismi di geni specifici
  • microbiota intestinale, ossia il pool di microrganismi come batteri, funghi, virus e lieviti che abita nel nostro tratto gastroenterico
  • dieta (succo di pompelmo, quercetina, verdure brassicacee e apiacee, grandi quantità di vitamina C, curcuma)
  • stile di vita (fumo di sigaretta)
  • malattie a carico del fegato 
  • farmacoterapia in atto (clozapina, rofecoxib, chinoloni, calcioantagonisti e antiaritmici)

La popolazione generale, fatta eccezione per alcune casistiche particolari descritte prima, si divide in un rapporto quasi 1:1 tra metabolizzatori veloci (o fast metabolizer) e metabolizzatori lenti (o slow metabolizer). Questa ripartizione affonda le basi nella diversa genetica degli individui: nella fattispecie esistono dei polimorfismi a carico del gene che codifica per l’enzima epatico implicato nel metabolismo della caffeina. Soggetti in possesso di due copie dell’allele CYP1A2*1A sono i cosiddetti metabolizzatori veloci, mentre soggetti che presentano anche solo un allele CYP1A2*1F sono metabolizzatori lenti.

I primi riescono pertanto a eliminare la caffeina in tempi molto rapidi, mentre i secondi ci impiegano molto più tempo, e questo spiega perché ad alcuni soggetti basta un caffè al mattino per sentirsi euforici e iperattivi tutto il giorno e agitati quando vanno a letto, mentre per altri l’effetto è limitato a 1-2 ore e poi devono rabboccare la dose con altri 3-4 caffè per restare su di giri.

C’è però da considerare il risvolto negativo: i metabolizzatori lenti non solo non hanno spesso bisogno di bere un secondo caffè a metà mattina e un terzo dopo pranzo, ma dovrebbero in generale evitare gli eccessi: 2-3 o 4 tazze di caffè (ciascuna con un contenuto medio di caffeina pari a 200 mg), aumenterebbero il rischio di attacco cardiaco non fatale rispettivamente del 36% e del 64%; la loro controparte a parità di dosaggio ha un rischio rispettivamente del 25% e del 22%.

I pregi del caffè 

Abbiamo già fatto un cenno su alcuni effetti largamente provati da numerosi studi in letteratura, alcuni insorgono prima, altri nel giro di qualche ora. Ci sono dei benefici soggettivi che si palesano velocemente: l’abitudine quasi ritualistica di prepararsi un caffè appena svegli ci fa svegliare prima, ci fa sentire più attivi, riduce la sonnolenza e ci consente di reggere la fatica fisica e mentale.

Meccanismo di azione della caffeina e cenni iniziali su alcuni effetti

Tutto ciò che sperimentiamo su corpo e mente nel breve termine è possibile grazie soprattutto alla caffeina.

Viene da domandarsi a questo punto quale possa essere il suo meccanismo di azione che dà ragione delle sue innumerevoli risposte fisiologiche.

Per analogia strutturale, la caffeina è un antagonista competitivo dei recettori dell’adenosina. In altri termini, ruba il posto all’adenosina legandosi ai suoi recettori: questo comporta innanzitutto che vengono meno gli effetti che competono a questo neurotrasmettitore: stanchezza, sensazione di sonno e soppressione della secrezione gastrica acida.

L’adenosina è un nucleotide che viene sintetizzato all’interno del nostro cervello e, come donatore e accettore di gruppi fosfato, riveste un ruolo fondamentale nei processi biochimici, come il trasferimento di energia. Non abbiamo una concentrazione costante di adenosina ma questa tende ad accumularsi nel corso della giornata ed è così che noi immagazziniamo e ci rendiamo consapevoli della stanchezza. Come farmaco per endovena, viene adoperato in acuto per bloccare l’aritmia sopraventricolare da rientro, una condizione in cui i battiti sono superiori a 100 al minuto.

Caffeina e non solo: quanto fa bene il caffè e perché

  • Umore disforico

La caffeina è nota anche per gli effetti positivi sul tono dell’umore e ci sono evidenze che mostrano una diminuzione del rischio di depressione dell’8%, fino a ridurre in extremis l’ideazione suicidaria. Questo probabilmente grazie al blocco della trasmissione GABAergica e all’immissione a cascata di neurotrasmettitori come dopamina e serotonina.

  • Mal di testa

L’emicrania cronica, causa più ricorrente di cefalea e che colpisce circa il 2% della popolazione, può trovare un sollievo dall’assunzione di caffeina spesso in associazione all’ergotamina, alcaloide prodotto da un fungo. L’azione su emicrania e altri tipi di mal di testa in combinazione con analgesici come il paracetamolo è quella di costringere i vasi sanguigni che irrorano il cervello, senza dare luogo a ischemie.

  • Tremori

Transitorio ma fastidioso è il sintomo dei tremori: la caffeina attiva il sistema simpatico aumentando la secrezione di catecolamine (adrenalina e noradrenalina) che attivano la muscolatura scheletrica, e questo in alcuni soggetti soprattutto dopo esposizione a una certa dose si può tradurre in un leggero tremolio.

  • Malattie neurodegenerative

Esistono anche studi epidemiologici che hanno preso in esame il declino cognitivo in età avanzata: dai risultati emersi, sembra che il caffè lo rallenti e che riduca o posticipi più in là l’eventualità di contrarre malattie neurodegenerative come morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson e sclerosi laterale amiotrofica.

A prescindere dalla dose di consumo e anche dopo correzione per fattori confondenti come il fumo di sigaretta, il caffè è risultato fortemente associato a un basso rischio del morbo di Parkinson. Il caffè decaffeinato invece, con qualche grammo residuo di caffeina, pur mostrando in associazione con la stessa malattia, il grado di correlazione non era statisticamente significativo.

Alcuni studi evidenziano che il declino delle facoltà cognitive instaura una relazione inversa con la quantità di caffè consumato quotidianamente: minimo in chi beveva 3 tazze di caffè al giorno. I non bevitori, al confronto, avevano una riduzione 4.3 volte maggiore.

Un’altra chicca intrigante sui poteri della caffeina è che quest’ultima sarebbe capace di rafforzare i processi di memoria e apprendimento tramite una triplicazione dell’attività elettrica del cervello, potenziando delle onde ad alta frequenza (onde gamma) che si rilevano durante l’elaborazione simultanea di informazioni da diverse aree cerebrali.

Riguardo al morbo di Alzheimer, sembra che la trigonellina, prodotto di metilazione della niacina (vitamina B3),  e l’acido clorogenico, l’estere del legame dell’acido caffeico con l’acido-chinico, frenano neuroinfiammazione e neurotossicità attraverso il blocco di formazione e aggregazione dei grovigli della proteina beta-amiloide, responsabili di neuroinfiammazione e neurotossicità che culminano con la morte dei neuroni.

Anche nella patogenesi del morbo di Parkinson, la caffeina occupa un posto di particolare rilievo: a valle di una sequela di neurotrasmettitori come dopamina, noradrenalina e serotonina scatenata dalla caffeina, il suo trattamento acuto o cronico attenua neurotossicità e neurodegenerazione indotte da una neurotossina (MMP+, acronimo di 1-metil-4-fenilpiridinio), che penetra le cellule dopaminergiche della substantia nigra e le uccide inibendo la respirazione mitocondriale e instaurando stress ossidativo. 

Per semplificare, la sopravvivenza di quei neuroni contrasta la perdita progressiva della dopamina che si verifica nella patologia e vengono calmierati i tipici sintomi motori.

  • Tumori

A dispetto di studi precedenti, probabilmente mal condotti e mal interpretati, il caffè non aumenta il rischio di insorgenza di tumori e da revisioni sistematiche e metanalisi si evince che un consumo elevato di caffè rispetto a uno più modesto era associato con un più basso rischio di cancro alla prostata, all’endometrio, melanoma e di altri tumori cutanei, alla cavità orale, leucemia e di cancro al fegato. Un rapporto dose-risposta rilevante riguardava soprattutto tumori a prostata, endometrio, melanoma e fegato. Quello alla mammella, forma più frequente di tumore nella popolazione femminile, sembra che riduca la sua incidenza del 3% se si beve qualche caffè in più o se si inizia a farlo. 

Un alto consumo rispetto a uno moderato, bere caffè rispetto a non berne affatto o aggiungere una sola tazza extra all’introito quotidiano sembrava predisporre maggiormente al rischio di cancro al polmone, ma eliminando il fattore fumo di sigaretta, spesso a braccetto con il caffè, l’effetto diminuisce e in coloro che non hanno mai iniziato a fumare, non è stata osservata alcuna correlazione. Nelle più recenti meta-analisi, che sono assemblaggi di più studi clinici o epidemiologici, il consumo a prescindere dalla dose rispetto al non consumo in soggetti mai stati fumatori, è risultato associato con un rischio di tumore al polmone inferiore all’8%.

Altri tumori sono stati esaminati e nessuna associazione degna di nota è stata trovata per il consumo di caffè e i tumori gastrico, del colon-retto, ovarico, tiroideo, del seno, pancreatico, esofageo, laringeo, linfoma e glioma.

  • Fa veramente perdere peso?

Eviscerando l’argomento decisamente più leggero della perdita di peso, sia l’azione anti adenosina che di inibizione delle fosfodiesterasi proprie del principio psicoattivo del caffè sembrano esercitare un ruolo positivo. Nel primo caso grazie al una maggiore accensione del sistema simpatico con un più importante rilascio di catecolamine (tra cui l’adrenalina) che ci fa, più o meno consapevolmente, muovere di più, spegnere i centri ipotalamici del senso di fame e mobilizzare le nostre riserve energetiche. Nel secondo, perché si accumula il cAMP (acronimo di adenosina monofosfato ciclica, per i più curiosi), che è un secondo messaggero che favorisce la lipolisi digerendo i trigliceridi delle cellule adipose. In realtà, la stessa adenosina che la caffeina antagonizza, oltre a farci accatastare progressivamente stanchezza su stanchezza, è stata osservata inibire la lipolisi, pertanto l’equazione è chiaramente questa: meno adenosina = più lipolisi.

Il metabolismo basale, subisce una spinta che ci porta a bruciare più calorie, però l’aumento di dispendio energetico si misura con una assunzione teorica di 4 mg/kg di peso corporeo, quindi moltiplicando il peso di un adulto standard per 4 mg dovremmo assumere ogni giorno tra i 240 e i 280 mg di caffeina, ossia 4-5 tazze di espresso. Una quantità ancora sicura per la salute, ma da evitare se metabolizzate lentamente il caffè. Anche se arrivassimo a quei dosaggi suddivisi in piccole porzioni cadenzate nel tempo, cosicché nel sangue i livelli di caffeina restino costanti, si potrebbero consumare solo 15 kcal/ora, l’equivalente calorico di neanche 10 minuti di passeggiata lenta.

Revisioni di studi scientifici indicano che il caffè bevuto 3-4.5 ore prima del pasto ha una trascurabile influenza sull’assunzione di cibo e macronutrienti energetici rispetto a un’assunzione più a ridosso.

La perdita di peso può essere diretta, per intervento di questi meccanismi di azione, oppure indiretta perché mediata da un aumento di attività fisica, sia strutturata che intesa come NEAT, energia spesa per attività al di là di un esercizio fisico impegnativo e generalmente a bassa intensità (camminare, fare le scale, o addirittura tamburellare le dita). È stato dimostrato infatti che i più appassionati bevitori di caffè senza accorgersene camminano circa 1000 passi addizionali al giorno, sempre grazie alla caffeina.

Lipolisi significa anche maggiore substrato più disponibile da cui liberare energia al bisogno e dalle considerazioni precedenti il salto è breve dallo scevro argomento del controllo del peso a quello più articolato e sempre più sotto i riflettori dell’azione del caffè nelle prestazioni sportive. Non ci sono dubbi che il caffè aiuti a migliorare le prestazioni sportive: è broncodilatatore quindi coadiuva la respirazione durante uno sforzo, ha effetti sul sistema simpatico migliorando la reattività e a livello muscolare, soprattutto cardiaco, ha un’azione inotropa e cronotropa positiva, ossia aumenta rispettivamente la forza e la frequenza di contrazione. 

  • Perché la caffeina negli integratori per gli sportivi?

Grazie anche a un aumento della lipolisi, permette di risparmiare i preziosi depositi muscolari di glicogeno, circa 150-300 g in media, che sono la nostra riserva fondamentale di glucosio. Questo rallentamento nell’esaurimento del glicogeno muscolare permette di tollerare meglio la fatica, e questo può rappresentare una svolta specialmente negli sport di endurance come la corsa su lunghe distanze. 

Anche gli sport di forza con i pesi possono trarre dei vantaggi a considerare un consumo moderato di caffè. O meglio, nel panorama trasversale dello sport, più del caffè si discute l’aggiunta di caffeina, artefice di effetti ergogenici, negli integratori. Una recente ricerca della prestigiosa ISSN (International Society of Sports Nutrition) dimostra che la caffeina esercita un effetto da piccolo a moderato su resistenza e forza muscolare: tramite un’alterazione elettrolitica intracellulare (calcio, sodio e potassio), favorisce la contrazione delle fibre muscolari e ha inoltre un’azione analgesica.

Per avere la risposta desiderata spesso non basterebbero nemmeno 5 o 6 tazze di caffè al giorno, le quali sarebbero nondimeno esenti da effetti collaterali gastrointestinali che inficerebbero la performance sportiva: dovendo coprire un fabbisogno teorico di 6 mg/kg di peso corporeo al giorno, si deve spesso ricorrere a integratori ad hoc.

  • Diabete di tipo 2

La caffeina presente nel caffè, può intervenire a doppio senso sull’omeostasi del glucosio nel sangue: su un versante è ipoglicemizzante perché determina una riduzione dell’attività catalitica della glicogeno fosforilasi, che scinde il glicogeno in unità di glucosio; sull’altro, l’elevazione nella concentrazione di adrenalina accoppiata agli effetti antagonisti dell’adenosina potrebbero in modo sinergico attivare la glicogenolisi e quindi un maggior rilascio di glucosio dal glicogeno che si riversa nel sangue. Sebbene ci siano studi che dimostrino un certo aumento della glicemia a seguito di assunzione di caffè, i risultati propendono nel confermare che questa bevanda possa anche contenere il rischio di ammalarsi di diabete.

C’erano alcune prove di una relazione dose-risposta non lineare, ma il rischio era comunque inferiore per ogni dose di aumento del consumo compresa tra una e sei tazze. Le cellule beta vanno meno incontro al processo di morte indotto da glucotossicità e lipotossicità e sono rese più funzionali nella secrezione di insulina, il tutto per merito della caffeina.

Se non era già assodato che tuttavia oltre alla caffeina ci sono ad es anche i polifenoli nel dietro le quinte dei molti benefici del caffè, anche il consumo di caffè decaffeinato sembrava avere associazioni simili di comparabile magnitudo. 

L’acido clorogenico sembra infatti che decrementi l’assorbimento di glucosio attraverso la mucosa intestinale e faccia in modo che le cellule amplino le loro porte di ingresso a questo zucchero, i trasportatori GLUT (glucose transporters). 

Entriamo nel merito dell’effetto insulino-sensibilizzante. 

L’acido clorogenico è in grado di:

  • attivare l’AMP chinasi, enzima che stimola la traslocazione dei recettori GLUT-4 a livello muscolare dal citoplasma alla membrana cellulare;
  • inibire l’enzima alfa-glucosidasi, riducendo la quantità di unità di glucosio prodotta nel lume dell’intestino tenue e di riflesso la glicemia dopo i pasti;
  • attivare il recettore PPAR-alfa, coinvolto nella riduzione di adiposità che migliora la sensibilità all’insulina e nella maggiore espressione della glicogeno sintasi che usa il glucosio in circolo per sintetizzare glicogeno nel fegato e nei muscoli.
  • Il peso del peso nel diabete di tipo 2

Il diabete può complicare un preesistente stato di sovrappeso e obesità, e sappiamo che la perdita di peso consente al soggetto di andare in buon compenso glicemico.

Una prima linea di terapia nel pre diabete nel diabete conclamato, per prevenire escursioni troppo ampie di glicemia e successive complicanze micro e macro vascolari, è sempre quella di perdere peso se in sovrappeso o in obesità. 

  • Come muta il microbiota intestinale 

Co-somministrare caffeina e acidi clorogenici a un gruppo di pazienti con diagnosi di diabete e steatosi epatica non alcolica ha provocato una riduzione del loro peso, probabilmente correlata ad un aumento dei bifidobatteri intestinali, una classe di batteri oggetto di tantissimi studi in numerose patologie acute, croniche e neurodegenerative. 

Si è riscontrato che livelli più elevati di generi batterici alleati della nostra salute (come Prevotella, Porphyromonas e Bacteroides) sono stati riscontrati nei forti bevitori di caffè.

Il microbiota intestinale trae dei vantaggi netti dall’azione modulante del caffè: si è assistito a una diminuzione di alcuni ceppi di Clostridium ed Escherichia coli, specie potenzialmente patogene, e un aumento di ceppi di Bifidobacterium.

  • Ipertensione

Storicamente il caffè è sempre stato accusato, da esperti e profani, di aumentare la pressione e tuttora si tende a consigliare di non bere caffè se si soffre di ipertensione arteriosa.

I recettori per l’adenosina che la caffeina blocca legandosi ad essi sono localizzati anche a livello dei vasi sanguigni: la contrazione dei muscoli lisci della parete delle arterie può rendere ragione di un aumento pressorio comunque blando e transitorio alle normali dosi di consumo (0,8 mmHg della sistolica e 0,5 mmHg della diastolica). 

I polifenoli del caffè potrebbero controbilanciare questo aumento per un’azione vasodilatatrice periferica e al netto di osservazioni condotte in acuto, i bevitori cronici di caffè, decaffeinato o normale, hanno tendenzialmente livelli di pressione più bassi di chi non li beve. 

Uno stile di vita più attivo osservato in correlazione all’assunzione di caffè abbassa la pressione e potrebbe almeno parzialmente esplicare questo effetto benefico.

  • Infarto

Un falso mito difficile da sfatare per anni era l’assunto che il caffè aumentasse gli infarti per un aumento delle irregolarità nel ritmo cardiaco, che collettivamente sono definite aritmie.

In realtà, chi beve tra 1 e 3 tazzine al giorno sembrerebbe avere un rischio ridotto del 5-10% di patologie cardiovascolari e lo stesso rischio di un aumento di aritmie cardiache è stato smentito da diverse meta analisi.

  • Mortalità cardiovascolare 

Da uno studio emerge che in confronto a chi non beve caffè, con 3 tazzine al giorno i rischi di morte per accidenti cardiovascolari erano ridotti del 19%, del 16% di mortalità per malattia coronarica e del 30% di mortalità per ictus. Salendo oltre le 3 tazzine non c’era un’inversione di tendenza ma l’effetto benefico è stato meno pronunciato.

  • Aterosclerosi 

Aterosclerosi e livelli persistentemente elevati di glucosio nel sangue insieme dichiarano guerra all’apparato cardiovascolare aumentando il rischio di patologie di diversa entità, pertanto è doveroso analizzare nel dettaglio come ci difende il caffè vagliando alcuni suoi componenti.

  • Acido clorogenico, diterpeni, caffeina e profilo lipidico

L’acido clorogenico sembra sia in grado di impedire la produzione dei grassi che formano le lipoproteine LDL, il famigerato colesterolo cattivo, facilitando la loro eliminazione; di contro, i diterpeni, cafestolo e il caveolo, inizialmente isolati nell’olio estratto dai fondi di caffè ma in una concentrazione di 4 mg in una tazza di espresso, fanno aumentare il colesterolo.

Il maggiore indiziato è il cafestolo, ligando agonista del recettore nucleare del Farnesoide X (FXR), recettore nucleare degli acidi biliari la cui attivazione sopprime la sintesi epatica degli acidi biliari, forma di smaltimento del colesterolo endogeno, e promuovendone invece l’escrezione.

Opera dei diterpeni è anche l’aumento persistente dell’attività della proteina CETP, deputata al trasferimento degli esteri del colesterolo dall’HDL alle lipoproteine ​​contenenti l’apolipoproteina B, LDL e VLDL.

Con una visione di insieme, alle dosi di diterpeni, caffeina e polifenoli tipiche di una tazza, il caffè sembra in realtà avere un’azione più protettiva che non di rischio sul nostro profilo lipidico.

  • Aggregazione piastrinica, sensibilità all’insulina, ossidazione del colesterolo LDL 

La complessità della patogenesi delle malattie cardiovascolari non si esaurisce ancora qui: la caffeina e gli acidi fenolici, seppur aumentando i livelli di omocisteina plasmatica, marker di rischio cardiovascolare, inibiscono l’aggregazione piastrinica; a far da contraltare alla caffeina, che peggiora la sensibilità all’insulina, il magnesio la aumenta; gli acidi clorogenici, come già menzionato in precedenza, riducono l’assorbimento del glucosio, l’ossidazione delle LDL che in questa forma si insinuano nella placca ateromatosa, e hanno azione antiossidante.

  • Osteoporosi

Un retaggio che ci trasciniamo da decenni è anche quello che il caffè sembri aumentare il rischio di osteoporosi, ossia la perdita patologica di massa e densità ossea di maggiore riscontro nella popolazione anziana e nelle donne in menopausa. Oggi sappiamo che, anche se l’entità dell’effetto è modesta, la caffeina può far aumentare le perdite urinarie di calcio e far diminuire l’assorbimento, ma è anche vero che aumenta l’acidità gastrica che rende più solubili e quindi assorbibili i sali di calcio. Se l’assunzione dietetica di vitamina D e calcio copre i fabbisogni individuali, la caffeina non costituisce un rischio di aumento di osteoporosi, almeno se non se ne fa abuso e il soggetto in questione non sia particolarmente predisposto geneticamente.

  • Malattie del rene e disturbi della minzione

Il caffè è correlato anche a un minore rischio di malattia renale cronica. La caffeina aumenta la filtrazione glomerulare, il volume urinario e probabilmente anche l’eliminazione di sodio, uno ione che compete con l’assorbimento del calcio nel caso di un eccesso di sale nella propria alimentazione. La frequenza della minzione che sperimentano alcuni soggetti può dipendere da una maggiore contrazione del muscolo detrusore della vescica sotto l’impulso di adrenalina e noradrenalina, la cui sintesi è stimolata dalla caffeina.

Se si soffre di incontinenza urinaria o altri disturbi della minzione, la raccomandazione spesso è quella di astenersi o bere al massimo un solo caffè non decaffeinato

  • Fegato: steatosi, fibrosi, cirrosi e cancro

Dato il suo esteso coinvolgimento nel metabolismo delle componenti del caffè e in generale di qualsiasi nutriente o farmaco assunti con la dieta, non si può non dedicare uno spazio anche al fegato. Oltre alle associazioni positive di riduzione del rischio di cancro epatico, diverse categorie di esposizione al caffè sono risultate associate a un rischio inferiore per una serie di esiti infausti: del 29% di steatosi epatica non alcolica, del 27% per fibrosi epatica e del 39% per cirrosi epatica e mortalità per cirrosi.

Potente freno all’infiammazione del fegato quando questo si infarcisce di lipidi, il caffè aumentando l’eliminazione della bile diminuisce il rischio di sviluppare calcoli alla cistifellea

  • Stitichezza

Sull’apparato gastroenterico, viene stimolata la produzione di enzimi intestinali e le onde di contrazione ritmica dell’intestino tenue (peristalsi), entrambi alleati di una migliore digestione e a seguire di un migliore assorbimento. L’aumento dell’attività della muscolatura liscia intestinale abbinato a una modifica favorevole del microbiota intestinale, sembra migliorare anche la costipazione.

  • Reflusso gastrico acido

Un punto a sfavore per quanto riguarda la malattia da reflusso gastroesofageo: come già approfondito, la caffeina aumenta la secrezione acida a livello dello stomaco e rilassa la muscolatura liscia dell’esofago, che ostacola meno il transito retrogrado del contenuto dello stomaco. Quanto si scopre dalla letteratura è che un consumo elevato rispetto a un consumo basso di caffè è stato associato a un rischio leggermente più elevato di malattia da reflusso gastroesofageo, ma questo non ha raggiunto livelli di significatività statistica.

Per via precauzionale, se proprio non si vuole rinunciare alla tazza di caffè, si suggerisce però di evitare di assumerla prima di coricarsi e di sdraiarsi sul lato destro, così da giovare sull’attenuazione del bruciore di stomaco e degli altri sintomi del reflusso.

Effetti globali e differenze in base al numero di tazzine di caffè 

Gli organi del nostro corpo dialogano l’uno con l’altro e se uno sta bene, l’altro sta sicuramente meglio. E tutti questi benefici in sinergia portano complessivamente il soggetto bevitore di caffè, a patto di buona genetica e stile di vita, a vivere più a lungo e morire più in là negli anni. Una spiegazione molto semplicistica è che magari le persone sane usano la caffeina e in generale il caffè più di quelle malate.

Altri studi hanno però dimostrato che il consumo di caffeina è associato ad una riduzione del 10% di mortalità per tutte le cause, indipendentemente dall’esposizione al caffè. Anche una tazza tutti i giorni potrebbe fare la differenza.

La maggiore riduzione del rischio relativo è stata tuttavia associata al consumo di tre tazze al giorno rispetto ai non bevitori. Anche il consumo elevato di caffè decaffeinato, rispetto a quello basso, è stato associato a una minore mortalità per tutte le cause.

Per quanto non avulsi da numerosi bias e inquinati da fattori di confondimento, studi che mettono sul piano di lavoro durata, qualità e aspettativa di vita hanno dato anch’essi risultati promettenti: tutti aumentano in modo dose-dipendente e una vita più in salute incrementa del 12% con una tazzina di caffè e fino al 18% con tre tazzine giornaliere.

Effetti antinfiammatori e antiossidanti

A ragione degli effetti protettivi su vari organi e di prevenzione di tumori e svariate malattie croniche non trasmissibili, la caffeina ha spiccate azioni antinfiammatorie e antiossidanti. Snoccioliamo come sempre gli interessantissimi meccanismi molecolari: la caffeina e il suo principale metabolita, la paraxantina, sopprimono infatti la migrazione di neutrofili e monociti, la proliferazione dei linfociti T e interferiscono anche con la produzione di numerose citochine causa di infiammazione (TNF-alfa, IFN-gamma m, IL-2, IL-4, IL-5 e IL-10). 

Tuttavia, uno dei motivi per cui sembra che i massimi benefici si raggiungono quasi sempre con 3 tazze di caffè è che a dosi alte la caffeina diventa proinfiammatoria.

Un altro marcatore di salute generale di un individuo è un rapporto di equilibrio tra specie ossidanti, che fisiologicamente si producono con le reazioni metaboliche che usano come substrato l’ossigeno, e specie antiossidanti, il nostro scudo contro invecchiamento, infezioni, malattie cardiache ma anche rughe. 

La caffeina inibisce la perossidazione lipidica indotta dal perossido di idrogeno, una molecola altamente reattiva, e risultati avvincenti si sono avuti sul consumo di caffeina prolungato che ha aumentato il rapporto glutatione ridotto/glutatione ossidato nel cervello e in particolare nell’ippocampo, sede della memoria a breve e lungo termine.

Il glutatione è un esempio di molecola antiossidante dorata di grande spirito di sacrificio: protegge proteine, lipidi di membrana e altri composti suscettibili dall’azione proossidante deleteria dei radicali liberi, ossidandosi reversibilmente al posto loro.

L’acido clorogenico, membro della grande famiglia dei polifenoli e che abbonda nel caffè verde, vanta di una cospicua attività come antiossidante: il gruppo funzionale idrossilico della molecola reagisce con facilità con i radicali liberi come i radicali idrossilici e l’anione superossido, sbarrando loro la strada di effetti domino di produzione di altri radicali e danni a strutture cellulari. Può inoltre chelare i metalli, ovvero legarsi a essi impedendo che questi ultimi producano specie reattive dell’ossigeno che vanno a perossidare lo scheletro fosfolipidico delle membrane delle cellule. In letteratura sono stati indagati i suoi effetti di riduzione di citochine proinfiammatorie, antibatterici e antivirali, ipoglicemizzanti e ipolipemizzanti, antimutagene e antitumorali, immunomodulatori, ecc. Scorporando il pool di acidi clorogenici nei suoi componenti, scopriamo che i più rappresentati, l’acido caffeico e l’acido 5-O-caffeilchinico, possono portare a minore attivazione del fattore nucleare NF-kβ, che induce l’espressione di geni proinfiammatori, consente l’apoptosi (o morte cellulare programmata) dei leucociti e monitora sopravvivenza, attivazione e differenziazione di cellule dell’immunità innata e linfociti T infiammatori.

Il sapore amaro ricercato dai cultori del caffè espresso è in parte fornito dalla presenza dei diterpeni caveolo e cafestolo, che sono però più concentrati nel caffè bollito e non filtrato. Per rimanere sui binari delle proprietà antiossidanti e antinfiammatorie del caffè, è emerso che il caveolo ostacola l’enzima inducibile COX-2 (acronimo di ciclossigenasi-2), reo di sintetizzare prostaglandine coinvolte nel processo di infiammazione soprattutto cronica, cruciale nella patogenesi di malattie metaboliche e altresì di malattie tumorali. Caso, quest’ultimo, in cui si osserva che la sua espressione è infatti sovra regolata.

Rischi e limiti di sicurezza

La medaglia ha 2 lati e l’iceberg una parte sommersa. La domanda che sorge spontanea a questo punto è se ci sono dei rischi quantificabili e quanto dovremmo bere caffè per favorire il miglior rapporto rischi/benefici.

Con le conoscenze attualmente a disposizione i rischi sembrano essere da imputare soprattutto allo psicostimolante caffeina.

L’agenzia europea per la sicurezza alimentare EFSA (European Food Safety Authority) ha fissato come soglia di sicurezza 400 mg scaglionati nell’arco della giornata.

Meglio quindi non superare i 5 caffè espresso al giorno perché i rischi a livello cardiovascolare non valichino i molteplici benefici di cui è ricca la letteratura. 

Questo limite però si abbassa a 200 mg in alcune categorie di soggetti con un metabolismo della caffeina differente: un esempio sono le donne in gravidanza, che comprometterebbero il normale sviluppo del feto.

Un consumo elevato di caffè è associato a un rischio più elevato di basso peso alla nascita, aborto spontaneo, parto pretermine nel primo trimestre, e nascita pretermine nel secondo trimestre. 

Nessuna associazione significativa, tuttavia, è stata rilevata per nessuna categoria di consumo di caffè e nascita pretermine nel terzo trimestre, difetti del tubo neurale, e malformazioni congenite della schisi orale (labbro leporino) o del sistema cardiovascolare.

Per i bambini la soglia massima di assunzione sicura di caffeina è ancora inferiore: 3 mg/kg di peso corporeo.

Dose letale e intossicazione acuta da caffeina

La dose letale media della caffeina (LD50) è pari a 150-200 mg/kg di peso corporeo, all’incirca 10 grammi per un individuo adulto di 60-70 kg. 

Tenendo a mente che siamo nell’ordine di qualche decina di mg per porzione di bevanda a base di caffeina, è palese che sia altamente improbabile intossicarsi a questi livelli: dovremmo bere circa 154 tazzine di caffè espresso e più di 6 caffè all’ora in 24 ore.

Già arrivando a 1200 mg di caffeina rischieremmo una crisi ipertensiva e oltre il tetto dei 400 mg il sovra innesco del sistema simpatico e la down regolazione dell’adenosina porterebbero a sintomi come tremori, agitazione, ansia e insonnia.

è altrettanto pericoloso sfidarci a bere tanti caffè tutti insieme: sopra i 300 mg succede quella che è nota come “intossicazione acuta da caffeina”. I sintomi riferiti più comunemente sono: irrequietezza, nervosismo, eccitazione, insonnia o alterazione profonda del ritmo sonno-veglia, rossore al viso, disturbi gastrointestinali come acidità gastrica, grave disidratazione da ipersecrezione di renina che aumenta la diuresi, flusso disorganizzato di pensieri e parole, irritabilità, aritmia (come tachicardia e non solo) e tremori muscolari.

Caffeine addiction 

Un dato di fatto difficile da accettare, ma tant’è: il caffè crea dipendenza, la quale, in base al soggetto può essere fisica ma anche psicologica. Dati prodotti da indagini su vasta scala della popolazione dei caffeinomani suggeriscono che dal 9 fino al 30% di loro potrebbe essere o in seguito diventare dipendente dalla caffeina.

La caffeina contenuta nel caffè e in molte altre fonti esibisce diverse, seppur non tutte, caratteristiche delle droghe tradizionali o di comportamenti che creano assuefazione come il gioco d’azzardo: sono ben noti i sintomi di astinenza dopo la cessazione di un lungo periodo di utilizzo e la comparsa di tolleranza. Nell’ultima edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V), la bibbia per gli psichiatri, il “disturbo da uso di caffeina” è annoverato come un possibile disturbo che allo stato dell’arte del presente, necessita di ulteriori studi per avere una validità diagnostica.

Il craving, ossia un desiderio incoercibile verso una sostanza o un comportamento, è un’altra colonna portante affinché qualsiasi cosa, nelle idonee combinazioni genetica-ambiente, possa esitare in un comportamento di dipendenza. Al di là dell’appagamento sensoriale della miscela, anche per il caffè (NON decaffeinato) è stato registrato il fenomeno del craving. 

Si è fatto già spoiler sull’esistenza di diversi meccanismi di azione sui quali poggiano le numerose risposte organiche e psicologiche alla sua assunzione: la caffeina infatti deve gli effetti psicotropi e ino- e cronotropi sulla muscolatura scheletrica e di alcuni vasi sanguigni anche alla sua azione di inibizione di un enzima, l’adenilato ciclasi, che a valle porta a una riduzione di un secondo messaggero fondamentale, il cAMP (adenosina monofosfato ciclico), che determina l’apertura di canali del K+ e chiusura di quelli del Ca++. Il bottone che accende questa serie di eventi cellulari è il recettore eterodimerico D2-A2A della dopamina e dell’adenosina presente nello striato, un’area sita in profondità del sistema nervoso centrale. Il succo della questione è che la caffeina aumenta il rilascio di dopamina, neurotrasmettitore principale coinvolto nel sistema cerebrale della ricompensa e connesso non tanto al momento in cui ci si fa, bensì alla motivazione che spinge a ricercare la droga.

Se ci si sente appagati c’è un netto rinforzo positivo che porta a ripetere quanto più possibile l’azione finalizzata a consumare quella droga, che sia una sostanza o un comportamento.

Non siamo ai livelli di piacere orgasmico dell’eroina, ma comunque il funzionamento alla base è lo stesso; in più, la caffeina sembra capace di potenziare gli effetti tossici e di dipendenza delle droghe d’abuso, con associazioni decisamente allarmanti della caffeina (come adulterante) con la cocaina, i derivati delle anfetamine, i catinoni sintetici e le bevande energetiche con l’alcol.

Se siamo dipendenti dalla caffeina e con un bagaglio di buone intenzioni di ripulire il nostro corpo dalla caffeina e dai sottoprodotti del suo metabolismo, dovremo scalare la dose lentamente e sotto controllo di un medico esperto, perché, come ben sa chi assume psicofarmaci, potremmo rischiare di incappare in spiacevoli effetti collaterali, che nel gergo della scienza della dipendenza si definiscono collettivamente “sindrome da astinenza”. Analoga, almeno concettualmente, a quella legata ad altre droghe, legali o meno, anche se molto meno severa, e dettagliatamente descritta nel sopra citato DSM-V. 

Sindrome da astinenza

I medici che lavorano nei reparti di emergenza e in ospedale dovrebbero familiarizzare con la sindrome di astinenza da caffeina quando incontrano pazienti con sintomi rilevanti, poiché si sovrappongono a sintomi associati a un nucleo psicopatologico di ansia, depressione, disturbi dell’umore, insonnia. Possono anche essere la causa di segni vitali anomali, come tachicardia, aumento della frequenza respiratoria e pressione sanguigna bassa o elevata e, come tali, possono rappresentare una sfida diagnostica.

Il quadro dei sintomi è ampio e complesso: quelli che si riscontrano più di frequente sono diametralmente opposti agli effetti benefici tipici indotti dall’assunzione del caffè, perché il cervello nel lungo periodo si adatta ricalibrando su nuovi set point. Quando interrompiamo l’assunzione di caffeina, soprattutto se bruscamente, appare prepotentemente la stanchezza, la sonnolenza, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, mal di testa legato a una maggiore irrorazione sanguigna diretta al cervello, facile affaticamento, cali di umore.

La buona notizia è che, a differenza dell’astinenza per droghe pesanti come cocaina o eroina, quella per la caffeina tende a durare meno di una settimana: superato lo scoglio dei primi 3 giorni in cui ci sentiamo molto male, poi i sintomi decrescono di intensità e gradualmente stiamo meglio.

Il fenomeno della tolleranza 

Il caffè e in particolare modo la caffeina hanno un potenziale addictive anche perché a un certo punto si instaura la tolleranza, fenomeno per il quale a parità di numero di tazze bevute e dosi di caffeina, le risposte soprattutto sul versante cognitivo si attenuano, e questo inevitabilmente conduce nella maggior parte degli utilizzatori a un progressivo aumento della quantità di caffeina ingerita. 

Le evidenze tuttora disponibili suggeriscono che la tolleranza alla caffeina a seguito di un lungo arco di tempo di assunzione a dosi alte è qualificabile come la risposta del nostro corpo al principio attivo stesso attraverso la sovraregolazione dei recettori dell’adenosina, una specie di effetto rebound.

Molto rapidamente evolve la tolleranza alla caffeina: dopo un consumo pari a 400 mg di caffeina 3 volte al giorno per una settimana si manifestano disturbi del sonno, ma una totale tolleranza tende ad apparire dopo 18 giorni stando su una quantità di 300 mg distribuita 3 volte al giorno.

Allerta tossicità: quali composti e a quali dosaggi 

Parafrasando il medico e alchimista Paracelso, è la dose a determinare l’effetto tossico di una sostanza. Nel caffè sono stati identificati 4 principali indiziati di tossicità.

Iniziamo a indagare l’acrilammide.

Sappiamo trattarsi di un composto neurotossico e potenzialmente cancerogeno (classe 2A IARC, un gradino sotto la classe 1 dei cancerogeni riconosciuti), che origina dalla tostatura del caffè, ma è anche presente nel fumo di sigaretta e come prodotto indesiderato delle ubiquitarie reazioni di Maillard tra zuccheri e proteine. Spoiler: intermedi o prodotti diretti o indiretti delle reazioni di Maillard sono anche le altre tossine di cui parleremo di qui a poco.

Un appunto da fare per tranquillizzarci è che in realtà più si procede con la tostatura dei chicchi di caffè tanto più il contenuto di acrilammide diminuisce; inoltre, la florida matrice di polifenoli e altre componenti bioattive fa in modo che una parte dell’acrilammide durante la preparazione resti intrappolata nel filtro. Nondimeno, c’è da considerare che la gran parte degli studi in merito ha valutato dosaggi 10000 volte superiori a quelli che si possono normalmente assumere con l’alimentazione, caffè compreso. 

Come per l’acrilammide, la tostatura del caffè produce l’idrossimetilfurfurale e i furani.

Il primo è contenuto in quantità che oscillano in base al tipo di caffè tostato da 300 a 2900 mg/kg, e modeste fonti sono uva, vino, aceto, succhi e concentrati di frutta, frutta secca zuccherina, carni e altri cibi conservati e prodotti da forno.

I furani si formano ad alte temperature come durante la cottura e appunto la tostatura dei chicchi di caffè e si sviluppano a partire da una moltitudine di sostanze naturalmente contenute nel substrato alimentare (vitamina C, carboidrati, amminoacidi, acidi grassi insaturi e carotenoidi). Nel caso del caffè, anche se in proporzione a qualsiasi altro alimento o bevanda comuni contiene più furani, questi ultimi sono altamente volatili e da ciò deriva che rispetto al caffè tostato e macinato, durante la preparazione il livello diminuisce sensibilmente: basti pensare che si riduce fino al 65% quando giriamo il cucchiaino per mescolare lo zucchero. 

Sia l’idrossimetilfurfurale che i furani, a braccetto con altre tossine minori, le ricaviamo per il 60-70% dai 2-3 caffè che beviamo nella nostra routine di alimentazione, ma i pareri dell’EFSA e altre agenzie rassicurano che le loro quantità assolute non devono destare preoccupazione perché ben al di sotto dei limiti di sicurezza.

Terminiamo l’excursus sulle tossine presenti nel caffè con un’altra tipologia di sostanze tossiche che sono i prodotti di glicosilazione avanzata (AGE), derivati dall’interazione tra zuccheri riducenti e gruppi amminici liberi di proteine, acidi nucleici e lipidi. 

Sono sintetizzati anche nel nostro corpo ma emergono sempre più prove a favore dell’effetto dannoso degli AGE presenti negli alimenti, strettamente associati a varie malattie croniche, come il diabete e le sue complicazioni, malattie del sistema cardiovascolare (danni diretti ai vasi sanguigni), malattie del sistema nervoso, allo sviluppo di alcuni tipi di tumori ma anche all’invecchiamento, all’infiammazione e allo stress ossidativo. 

La sola nota di merito che si prendono gli AGE è che prendono parte nel donare il colore e il sapore caratteristici dei cibi fritti o grigliati o della crosta del pane appena sfornato. Per il resto, il discorso non cambia: sono pericolosi a dosi molto alte e se tutti i giorni a ogni pasto mangiassimo cibi fritti o grigliati. Alla stessa maniera, alla normale assunzione giornaliera di caffè non c’è alcun pericolo concreto e c’è anche un problema fortunatamente di bassa biodisponibilità degli AGE, che attraversano poco la nostra barriera intestinale.

Non solo caffè: dove si trova la caffeina

Il caffè non è certamente l’unica o la più ricca tra le fonti di caffeina: si può inconsapevolmente o meno introdurla da tante altre bevande, integratori e persino da farmaci. Avete letto bene: farmaci soprattutto per trattare il mal di testa, mal di denti, nevralgie, dolori mestruali e per alleviare sintomi influenzali. Il consumo di bevande gassate zuccherate prende parte al dilagare a macchia d’olio della piaga di obesità infantile dei paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo, e la coca cola, se non specificato altrimenti sulla lattina, contiene caffeina.

Qui di seguito presentiamo, a titolo informativo per meglio orientare noi tutti consumatori distratti, un elenco di bevande con caffeina che possiamo ordinare al bar o trovare sui banconi del supermercato.

  • tazzina di espresso: 65 mg per tazza (30 ml);
  • caffè preparato con la moka: 100-150 mg per tazza (60 ml);
  • caffè americano: 90 mg per tazza (200 ml);
  • caffè ginseng (piccolo): in media, da un minimo di 10 mg a un massimo di 50 mg per tazza (50 ml);
  • caffè orzo: assente;
  • caffè decaffeinato: 4 mg per tazza (50 ml);
  • caffè in capsule: da 50 / 65 fino a 70 / 80 mg per capsula (8 g);
  • bibita energetica: 75-160 mg (per alcune marche si può sfiorare i 500 mg) per lattina (220 ml);
  • Redbull: 80 mg per lattina da 250 ml, 105.5 mg per una lattina da 330 ml; 
  • bevanda tipo cola: 33 mg per lattina (330 ml);
  • Coca cola: 24 mg per lattina (250 ml);
  • cioccolato al latte: 3 mg per porzione (30 g);
  • cioccolato fondente: 7 mg per porzione (30 g) – perché c’è più cacao rispetto al cioccolato al latte;
  • tè nero: 50 mg per tazza (220 ml);
  • tè verde: 35 mg per tazza (220 ml).

Gli italiani tra i più amanti del caffè 

Secondo delle indagini epidemiologiche, l’Italia figura nella top 10 mondiale tra i paesi che consumano più caffè. Si sorseggiano ogni giorno, a colazione, dopo pranzo e nelle pause ritagliate dai turni lavorativi, circa 95 milioni di tazzine di caffè, pari a 1,6 in media per persona. 

Dalla popolazione al singolo consumatore: ostacoli di oggi e scenari futuri

Una delle bevande più mistificate e demonizzate: al di là del partito ideologico, molti studi ben disegnati e ben condotti e diverse meta analisi, sono stati portati avanti e hanno fatto scoprire molto sulla complessa chimica del caffè e sugli effetti biologici nel corpo umano.

Ancora oggi la maggior parte delle indicazioni in merito alla sua assunzione fanno riferimento esclusivamente alla popolazione tout court, e non tengono in considerazione, anche per ovvi motivi di difficoltà di raccolta dei dati, le variazioni individuali (genetica, stile di vita, microbiota intestinale).

Tuttavia, secondo Rob van Dam, professore di scienze motorie e della nutrizione, e di epidemiologia presso la George Washington University e coordinatore di uno studio interessante sul nesso tra caffè e patologie, “oggi siamo giunti a una fase della ricerca in cui intravediamo l’opportunità di creare profili di alimentazione personalizzati” e quindi attraverso test genetici, conoscere la propria dose ottimale quotidiana di caffeina.

Come far rientrare il caffè in uno stile di vita sano e adattare il consumo in base ai sintomi 

Sottraendo limiti, parti in ombra, bias e fattori confondenti da tutta la letteratura in merito, possiamo affermare che 3 caffè al giorno sembrano un ottimo compromesso tra il berne troppi e il non berne affatto: la maggior parte degli effetti positivi sulla salute si accentua con questa media giornaliera e aumentando la dose, la pendenza della curva dei benefici diminuisce, mentre aumenta quella degli effetti collaterali.

Il momento migliore per gustare il caffè è la mattina a colazione, poi, se ci si sveglia presto, un altro a metà mattina almeno 2 ore dopo il primo, e infine uno dopo pranzo per agevolare la digestione.

Chi non tollera il retrogusto amaro e deve per forza aggiungere la bustina o il cucchiaino di zucchero (5 g), se beve 3 o più caffè dovrebbe cautelarsi nel non eccedere con gli zuccheri semplici nel resto della giornata: il limite delle linee guida per una sana alimentazione è del 15% del fabbisogno energetico giornaliero di zuccheri totali e del 10% di zuccheri aggiunti (rispettivamente, 70 e 50 g per una dieta di un adulto medio da 2000 kcal).

Ogni individuo ha un funzionamento unico, anche un gemello dall’altro: ci sono delle linee generali, teorie validate da anni di studi e ricerca, e meccanismi fisiopatologici che valgono per tutti, e poi c’è il case report, l’individuo singolo.

Il singolo caso con delle sue particolari esigenze e che per una serie incalcolabile di variabili intrinseche e dell’ambiente circostante, risponde in un certo modo alla stessa quantità di una sostanza.

Provare a ridurre le dosi del caffè per settimane fino a un mese può costituire una piccola svolta positiva per la salute, specie se abbiamo problemi di cattiva digestione, dolori addominali, reflusso gastrico acido, ma anche episodici attacchi di cefalea. 

In definitiva, che consigli possiamo dare sul consumo di caffè? 

Per quanto suoni scontato, è sempre bene ribadire che qualsiasi domanda, anche sul se, come, quando e quanto bere caffè, debba essere rivolta al proprio medico di base o nutrizionista che ci conoscono molto meglio di Dottor Google. Un altro suggerimento è che se si prova a modificare la dose, ci si astiene del tutto o si inizia a bere caffè, può essere interessante adottare l’abitudine di annotare, come viene spesso richiesto dai nutrizionisti al momento della compilazione di un diario alimentare, i sintomi che appaiono nelle ore a ridosso del suo consumo, o che viceversa cessano di manifestarsi o si affievoliscono rispettivamente togliendo o riducendo il caffè. Metodo empirico e non esente da errate interpretazioni, ma pur sempre un metodo che può essere aggiustato e perfezionato nel tempo, man mano che si acuisce la nostra capacità di insight sulle nostre sensazioni corporee.

Per concludere: non tralasciamo l’aspetto edonico 

Dulcis in fundo, la ricerca del piacere: se state bene, vi piace e bevete con moderazione, senza abusare di altre bevande con caffeina al loro interno, assaporate il caffè nella forma che più vi piace e magari sfruttatelo come occasione per socializzare nel bar sotto casa, condividendo con altri la magia sensoriale di quel momento.

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Biologa Nutrizionista, affamata di scienza e con il pallino per la scrittura. Nei limiti del fabbisogno informazionale dell’utente medio, scrivo articoli a tema alimentazione e nutrizione umana per incuriosire, appassionare, ma anche educare a un rapporto sano con il cibo e con il proprio corpo.