Il valore simbolico del cibo
Il cibo è il significante dell’Altro che accudisce: la prima forma di cura, nei mammiferi come l’uomo, passa attraverso l’allattamento. Non a caso, l’atto del mangiare è anche la prima innocente forma di piacere.
Il significato del cibo tuttavia trascende la psicobiologia e il suo potenziale edonistico, perché noi siamo fatti non solo di corpo e processi mentali complessi, ma anche di protesi artificiali: cultura e società.
Ed è dall’inter-relazione di queste componenti che si struttura il nostro rapporto con l’alimentazione.
L’atto del mangiare codifica lo scambio con l’altro e quindi il cibo ci permette di costruire un’identità perché è anche una colonna portante delle relazioni sociali: la convivialità è una pietra miliare dello stile di vita mediterraneo, non meno importante dell’adesione ai sani principi della piramide alimentare della dieta.
Il cibo per la mente
Se mangiare è appagante, ci fa sentire al sicuro e accuditi, è un collante sociale e forma la nostra identità, allora il passo è breve a utilizzarlo come regolatore o argine di emozioni negative e pervasive: noia, solitudine, paura, tristezza, nervosismo e stress possono trovare spesso sfogo nel cibo, quasi come se si volesse alleggerire il peso della testa convogliando più sangue alle arterie dell’apparato gastrointestinale.
Il fil rouge di paura e stress
In acuto, lo stress è una risposta adattativa a una condizione di pericolo che ci porta, per poter rispondere attivamente con la fuga o il combattimento, a ricercare cibi più energetici e a mobilitare le riserve di glucosio, il nostro carburante principale.
In cronico, ovvero quando viene perpetrato per diversi mesi, può avere diverse ricadute negative tanto sul piano fisico quanto sulla sfera cognitiva e psicologica.
Paura e stress hanno avuto diverse manifestazioni sintomatiche e sono state il filo conduttore del periodo pandemico, sia durante che dopo le finestre (serrate) del lockdown: dal punto di vista del comportamento alimentare, diverse sono le conseguenze in funzione di variabili socio-demografiche, abitative, cliniche, psicologiche, ecc.
Su scala macroscopica, il fenomeno della pandemia ha rappresentato un esperimento antropologico senza precedenti, considerando la parallela “infodemia” della quale i media tradizionali, ma soprattutto le piattaforme social, sono stati i principali “agenti patogeni”.
Ognuno di noi ha testimoniato, più o meno in prima persona, le lunghe code davanti ai supermercati ancora chiusi per fare incetta di farina e passata di pomodoro (il cui prezzo, secondo un’indagine di Altroconsumo, è aumentato rispettivamente di circa ⅓ e ⅕ nel triennio 2019-2021), ma anche lievito di birra, tante altre materie prime e prodotti surgelati e a lunga conservazione.
Il ricorso al food delivery e alla spesa online sono incrementati vertiginosamente sulla spinta della paura del contagio, stress, noia, isolamento e un generalizzato squilibrio di dopamina.
Fame e sazietà in quarantena
La permanenza claustrofobica nell’ambiente della casa, sedentari, isolati dalle persone e dai rumori e illuminati dalle luci artificiali, fa vacillare il ritmo sonno-veglia: segue a ruota una distorsione delle proprie percezioni sia esterne che enterocettive, comprese fame e sazietà.
Il principale trigger della fame dovrebbe essere naturalmente lo stomaco vuoto; se predominano stress e nervosismo, subentra la fame edonica e cioè la voglia di appagarsi con determinati cibi per puro piacere, avulsa dalla necessità di rimpinguare le scorte energetiche.
Cibi ricchi in zucchero, che danno un effetto di craving proporzionale al loro carico glicemico, hanno infatti il potenziale di placare lo stress perché aumentano la disponibilità di triptofano che a sua volta può essere convertito in serotonina, neurotrasmettitore con effetti notoriamente positivi sull’umore e sulla qualità del sonno.
Lo stress correlato a esperienze negative può mimare la percezione endogena di sazietà riducendo l’introito calorico; ma il più delle volte, in assenza di vincoli fisici, temporali o categoriali, resistere al richiamo seducente del cibo è impossibile. Quella che ormai rimane l’unica fonte di piacere ha l’aggravante di trovarsi letteralmente a due passi dal divano e dalla scrivania, disponibile 24h su 24.
In uno studio osservazionale che ha arruolato un campione di 3500 soggetti, omogeneo e rappresentativo della popolazione italiana, si evince che, durante la quarantena, il 34.4% dei rispondenti al questionario aveva più appetito, contro il 17.7% che ne avvertiva meno. Lo smart working e il cambio in generale delle abitudini lavorative ha influito, soprattutto nel genere femminile, ad alterare la percezione di fame e sazietà.
In carenza dell’effetto anoressigeno e antidepressivo dell’esercizio fisico, erano soprattutto i giovani, i più attivi prima del lockdown, a percepire maggiormente la fame. Età giovanile e alto indice di massa corporea erano direttamente proporzionali al consumo di cibi definiti “spazzatura” (fast food, cibi ultra processati e ricchi di sale, zucchero e grassi saturi animali).
A riprova di questa osservazione, dove l’indice di massa corporea era mediamente maggiore, e cioè al Sud Italia e nelle Isole, maggiore è stato anche l’appetito e il consumo di spuntini serali.
Più controllo o meno controllo
Senza varcare gli sfumati confini tra “sano” e “malato”, si potrebbe riassumere che il comportamento e le scelte alimentari in fase pandemica nella popolazione generale si sono polarizzate sul versante del controllo.
Da una parte, i freni inibitori si allentano: prossimità al frigorifero, dispense piene di cibo saccheggiato nel supermercato o negozio di alimentari più vicino, insieme all’implementazione dei servizi del food delivery e della spesa online, portano il soggetto a iperalimentarsi, prediligendo dolci, fast food e in generale alimenti ad alta densità energetica e iperpalatabili. Rispetto all’anno precedente infatti, Altroconsumo mostra che ad esempio in Italia aumenta del 22% circa l’acquisto di snack dolci e salati (patatine, biscotti).
Dall’altra parte, c’è il fenomeno opposto della maggiore attenzione all’alimentazione: vuoi per il recepimento di corrette informazioni e consigli, vuoi per tendenze ipomaniache, ossessive, ipocondriache amplificate dal COVID-19, vuoi per un tentativo di compensazione per prevenire l’aumento di peso.
Dal disordine alimentare al disturbo vero e proprio
L’equazione è la seguente: input estremi, output estremi. Situazione eccezionalmente tragica e lo spettro di risposta si polarizza, ben lungi dalle curve statistiche di distribuzione gaussiana.
Le due reazioni simmetriche di ipo- e ipercontrollo sull’alimentazione, che hanno senza dubbio accomunato questa ondata pandemica a tanti altri periodi di forte stress, paura e psicosi collettiva, potrebbero comunque non destare preoccupazione nel caso di un aumento/riduzione di peso contenuti o qualche orario o pasto sballati.
Il disordine alimentare è più un atteggiamento contingente che non un tratto scavato nel corpo e nella personalità del soggetto.
Pertanto, non è necessariamente precursore o tratto comportamentale di patologie appannaggio della psichiatria, psicologia, nutrizione o endocrinologia: può essere in grado di revertire, in breve tempo e senza profonde cicatrici, al ripristino delle condizioni precedenti l’input stressogeno.
Purtroppo, nella fattispecie della malattia COVID-19, soggetti più fragili perché già malati o predisposti, hanno peggiorato la loro salute psicofisica in modi tendenzialmente sempre reversibili, ma in un arco di tempo imprevedibilmente più lungo.
E questo è stato ampiamente evidenziato dall’aumento di incidenza, riacutizzazione e slatentizzazione di disturbi psicologici e psichiatrici, e tra questi dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione.
Il comportamento alimentare, di controllo ossessivo o di mancanza assoluta di questo, o di estrema selettività alimentare, per citarne qualcuno, diventa in questo contesto solo la parte emersa dell’iceberg, un epifenomeno di una psicopatologia molto più complessa, che affonda le sue radici nel nucleo familiare e in generale in vissuti particolarmente traumatici. Un trauma che può avere infinite configurazioni: dalle parole dette o non dette, ai modelli affettivi disfunzionali, alla violenza di un famigliare o del bullo della scuola, ma anche al decesso o al ricovero di un familiare in terapia intensiva per COVID-19.
Se il ragazzo o la ragazza sono costretti alla convivenza 7 giorni su 7 con l’Altro traumatico, è chiaro che quei soggetti meno corazzati, perché ancora mancanti di una personalità ben strutturata e con forti disordini o disturbi alimentari sotto soglia, saranno più propensi a progredire verso un disturbo di maggiore gravità.
Cenni di epidemiologia
I dati epidemiologici hanno consegnato un quadro terrificante sulla salute mentale, soprattutto di bambini e adolescenti.
Sul tramontare della pandemia si è registrato un aumento del 30% di DCA su tutto il territorio nazionale, arrivando a totalizzare 3 milioni di malati, pari a circa il 5% della popolazione: da dati provenienti dall’Osservatorio ABA e ISTAT, l’8-10% delle ragazze e lo 0.5-1% dei ragazzi soffrono di anoressia nervosa o bulimia nervosa.
Una panoramica molto dettagliata e dirimente ogni grado di incertezza sulla silenziosa epidemia dei DCA ce l’abbiamo grazie al rapporto del Ministero della Salute, relativo al triennio 2019-2021 e basato su raccolta e processamento di una vasta mole di dati su tutto il territorio nazionale. Le evidenze mostrano che c’è stato un aumento significativo di nuovi casi, soprattutto in bambini e adolescenti e di anoressia nervosa, ma anche bulimia e BED.
L’aumento di anoressia in particolare è stato trasversale dagli 11 ai 25 anni e ha riguardato anche il sesso maschile, spesso sotto diagnosticato. La bulimia ha aumentato la sua sfera di azione ma in misura assai minore perché spesso si sovrastruttura a una malattia psichiatrica preesistente: schizofrenia, bipolarismo, autolesionismo o depressione. In ultimo, il BED, spesso in comorbilità con uno stato di obesità di grado severo, tende a riguardare maggiormente i soggetti adulti, e l’obesità, con tutto il correlato di patologie cardiovascolari e metaboliche, si è notevolmente aggravata per l’instaurarsi o il riacutizzarsi del disturbo alimentare.
Disturbi misconosciuti, età di esordio e altri disturbi mentali
Le categorie discrete del DSM-V non sono tuttavia lo specchio della realtà: esiste uno spettro di disturbi e se immaginassimo per assurdo che anoressia e bulimia stiano alle 2 estremità, in mezzo ce ne sono innumerevoli altri, e ciascuno di essi può virare nel suo vicino e variare di intensità: insieme alle diagnosi di nuovi casi di anoressia, bulimia e BED conclamati, sono aumentati progressivamente anche tutti quei disturbi che vengono accatastati, nella classifica del DSM-V, sotto l’ombrello dei disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati. Si tratta di disturbi cosiddetti “atipici” perché entità e frequenza di manifestazione dei sintomi, quali possono essere perdita di peso oppure abbuffate e comportamenti compensatori come vomito e uso di lassativi, sono inferiori rispetto a quanto specificato nei criteri diagnostici di una classica anoressia o bulimia. Inferiore che non significa meno grave o non meritevole di cure tempestive e adeguate.
Disturbi che possiamo definire ibridi perché a cavallo tra un franco disturbo alimentare e qualcos’altro sono la vigoressia e l’ortoressia, anche questi in continuo aumento e con una accelerata notevole durante il lockdown.
Nel primo caso è molto accentuato e invalidante il dismorfismo corporeo, nell’altro una comorbidità con il disturbo ossessivo-compulsivo che spiega la loro analisi maniacale delle etichette degli alimenti e un rapporto con il cibo comparabile a quello di un chimico con dei reagenti in provetta.
L’anticipazione dell’età di esordio di un DCA dai 14-15 anni a quella prepuberale-puberale di 10-11 anni era un trend già in atto prima della pandemia ma ha subito una spinta propulsiva durante il periodo COVID-19, che ha visto un aumento di incidenza di disturbi dell’alimentazione e della nutrizione in bambini ancora più piccoli. Complice l’eccessiva iperprotezione e apprensione delle famiglie a fianco del cambio drastico di vita, è aumentata la prevalenza del disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo, condizione che può portare e gravi carenze nutrizionali fino a dover richiedere l’immediata dipendenza da supplementi nutrizionali orali o nutrizione enterale con sondino nasogastrico.
Nel novero dei gruppi diagnostici riconducibili ai disturbi mentali, le “sindromi e disturbi da alterato comportamento alimentare” sono stati quelli che, nel triennio 2019-2021, hanno subito l’incremento più importante (3.5 punti percentuali), passando dall’8.3% del 2019 all’11.8% del 2021.
Aggiornamenti sull’obesità infantile
L’obesità è un indicatore prognostico negativo per il BED o la food addiction e viceversa, ma non sempre i due disturbi devono necessariamente coesistere, essendo l’obesità una patologia cronica ad eziologia multifattoriale. Il confinamento nelle mura domestiche dei mesi della pandemia ha peggiorato purtroppo anche l’epidemiologia dell’obesità infantile. Nel 2019 l’Italia aveva il 20,4% di bambini tra gli 8 e i 9 anni sovrappeso e il 9,4% di obesi anche gravi. Con il sopraggiungere del lockdown, la curva è salita e dai rilevamenti sulle abitudini della popolazione pediatrica è emerso che al giorno in media i bambini hanno consumato un pasto in più, dormito mezz’ora in più e hanno trascorso 5 ore addizionali davanti agli schermi di tv, cellulari e computer. È aumentato il consumo di carne rossa, possibile cancerogena secondo l’agenzia IARC e il cui consumo non dovrebbe superare i 400 g a settimana, ma anche bibite zuccherate come i succhi di frutta e in generale il cibo “spazzatura”; per converso, l’attività fisica è calata di oltre 2 ore a settimana.
Una panoramica dell’andamento epidemiologico dell’obesità su scala mondiale è apprezzabile dalla lettura dell’edizione 2023 del World Obesity Atlas: globalmente, in bambini e adolescenti da 5 a 19 anni, la prevalenza di obesità si prevede passare dal 10% e l’8% del 2020 al 14% e il 10% nel 2025, rispettivamente nei ragazzi e nelle ragazze. Una metanalisi che integra i dati di ben 38 studi in ben 17 paesi ha calcolato un aumento medio di 1.5 kg di peso in adulti e adolescenti a partire dai 16 anni di età.
Un’altra metanalisi datata 2021 di 12 studi provenienti da 8 paesi e focalizzata sull’obesità infantile, ha rilevato un aumento di prevalenza dell’obesità dal 22% al 25% e del sovrappeso dal 25% al 28% durante il lockdown.
Più dati si acquisiscono e più le previsioni diventano accurate: se andiamo avanti così l’obesità infantile raggiungerà la quota globale di 250 milioni nel 2030, ovvero il 13% dei bambini e adolescenti.
Parliamo di obesità infantile perché oltre il 60% dei bambini in sovrappeso in età adolescenziale lo sarà anche nell’età adulta e tanto più precoce è l’insorgenza di obesità peggiore la prognosi e la qualità di vita del paziente.
Un riassunto dello stato dell’arte e una pacca sulla spalla di incoraggiamento
Dati alla mano, possiamo riassumere la pagina della storia del COVID-19 come una “sindemia”, perché tre fenomeni di proporzioni pandemiche si sono sovrapposti: COVID-19, obesità e disturbi del comportamento alimentare.
Nella fattispecie di questi ultimi, l’effetto moltiplicatore della pandemia sulle problematiche di salute mentale si è avvertito: oggi siamo arrivati a ben 3.5 milioni di italiani che soffrono di DCA. Considerato che la durata di malattia è generalmente dell’ordine di anni, chi ha esordito con la fase acuta durante il lockdown in parte ne sta ancora pagando le conseguenze. Però in parte, perché secondo stime affidabili il 60-70% dei soggetti con disturbi dell’alimentazione e della nutrizione fortunatamente riesce a guarire e non cronicizza. E prima si fa diagnosi e si interviene prendendo in cura il paziente, migliore la prognosi e prima la remissione del disturbo. Per l’obesità il discorso è molto più complesso e, se non gestito per tempo,il tessuto adiposo infiammato crea danni sistemici irreversibili, come nel quadro della sindrome metabolica.
A chiosa di questa prima parte dell’articolo, diamo almeno qualche buona notizia, perché c’è sempre e comunque l’altra faccia della medaglia: per molti il rapporto con il cibo e la propria alimentazione sono migliorati; e questo, direttamente o indirettamente, implementa anche la salute psicologica.
Le raccomandazioni di società scientifiche ed enti nazionali ed internazionali su come organizzare lo stile di vita a tutto tondo hanno dato dei buoni frutti. Già soltanto considerando l’arco temporale ristretto del lockdown, lo studio condotto sul campione di 3500 italiani evidenzia come il consumo di cibo classificato come “sano” (frutta, verdura e ortaggi, frutta secca e legumi) è incrementato, e sono molti di più i soggetti che hanno ammesso di aver ridotto il consumo del cibo “spazzatura”.
Ogni comportamento virtuoso dello stile di vita ha un impatto positivo sugli altri, e pertanto non sono da trascurare altri aspetti dove l’alimentazione non la fa da protagonista: durante la quarantena in media sono aumentate le ore di sonno e, controintuitivamente, ridotti il consumo di alcol e fumo.
Ma quando SARS-CoV-2 è diventato meno pericoloso e ci ha fatto ritornare alla vecchia ruota del criceto quotidiana, cosa è successo?
Il tempo ha subito una contrazione per l’ingresso prepotente di tutti gli impegni precedenti e lo spazio si è dilatato, si mangia spesso fuori casa e aumentano aperitivi e altre occasioni di convivialità. Al netto dei punti persi nella categoria “salubrità” della dieta quotidiana, essendo salito nuovamente il consumo di alimenti o pasti più calorici, processati e squilibrati (alcol incluso), secondo la survey epidemiologica di Altroconsumo per il triennio 2019-2021, sono state effettivamente acquisite e mantenute abitudini più salutari: si pianificano di più i pasti per sé e per la propria famiglia, si fa più spesso la lista della spesa, si acquistano prodotti locali e di stagione, si spreca di meno e si presta maggiore oculatezza a comperare alimenti più nutrienti.
Fine primo tempo: take-home message
Nutriente deve essere l’alimentazione ma anche il rapporto con gli altri, perché corpo e psiche vanno a braccetto e la cura di noi stessi, in presenza o meno di minacce esterne o interne a noi, non dovrebbe mai escludere l’una o l’altra componente. Cosa abbiamo imparato da questa mesta esperienza è difficile stabilirlo, ma è auspicabile che il “lusso” di aver avuto più tempo abbia quantomeno portato a un maggiore livello di insight su chi siamo, cosa significano il cibo e l’Altro per noi, e cosa possiamo cambiare nella nostra vita per stare meglio, COVID-19 o non COVID-19.